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L’aldilà nell’antico Egitto e il culto dei defunti

La concezione dell’aldilà ha costantemente caratterizzato tutte le religioni del mondo nel corso dei secoli. I rituali funerari dell’antico Egitto possono essere considerati precursori di molti dei riti attuali volti ad accogliere una vita oltre le spoglie mortali. 

Gli antichi egizi nutrivano una forte credenza nell’eternità. Ed è proprio grazie a questa che oggi possediamo testimonianze indelebili di un’antica civiltà che racconta la storia di una cultura in cui la dipartita non era un tabù, ma un’opportunità per prosperare in una vita senza fine.

L’idea egizia dell’aldilà 

L’idea dell’aldilà per gli egiziani era strettamente legata alla materialità della vita terrena. Credevano che il corpo dovesse rimanere intatto per poter rinascere. Questo spiega l’ampiamente nota tradizione della mummificazione, che, oltre a servire a scopi pratici, rappresentava simbolicamente il rito eseguito da Anubi sul corpo di Osiride per conferirgli l’immortalità. 

Il processo di conservazione della salma, che comportava l’eviscerazione e l’avvolgimento del corpo con bende prima di deporlo nel sarcofago, è ben noto. 

L’evoluzione di un’idea

Nell’antico Egitto, l’idea dell’aldilà si è evoluta nel corso dei secoli, tra immagini suggestive di sole e tenebre, terra e cielo. Inizialmente, si credeva che l’oltretomba fosse situato nel cielo, rappresentato come una stella inserita in un cerchio, in un luogo chiamato Duat. Successivamente, si sviluppò la credenza nei “campi Iaru”, campi di giunchi attraversati da ruscelli, ai quali il defunto poteva accedere solo se il rituale della pesa del cuore si rivelava favorevole. La pratica della “psicostasia” consisteva in un rituale in cui il cuore del defunto veniva collocato su di una bilancia e sottoposto ad un’accurata pesatura. Se il cuore risultava leggero come una piuma di Maat, posta sull’altro piatto, Anubi consegnava il defunto nelle mani di Osiride. Altrimenti, il cuore veniva dato in pasto al coccodrillo Ammit.

Gli egiziani avevano riti liturgici per accompagnare il defunto, noti come “Testi dei sarcofagi”. Queste formule funerarie, contenenti rituali magico-religiosi, erano scritte principalmente sui sarcofagi prodotti tra il Primo periodo intermedio e la fine del Medio Regno. Avevano lo scopo di garantire al defunto la rinascita e il favore degli dèi. I “Testi dei sarcofagi” derivavano dai più antichi “Testi delle piramidi”, che erano riservati esclusivamente al sovrano e ai membri della sua famiglia. 

Il rito funebre egiziano

Nel rito funebre egizio, ogni dettaglio era accuratamente pensato e motivato, e ancora oggi queste attenzioni suscitano un fascino e un trasporto inesauribili. È interessante sapere che gli egizi chiamavano il sarcofago “neb ankh”, ossia “il possessore di vita”, un elemento indispensabile per proteggere le spoglie mortali per l’eternità. Il coperchio rappresentava il cielo, il fondo era la terra e i lati indicavano i quattro punti cardinali.

Il defunto giaceva con la testa rivolta a nord, il volto rivolto verso est, dove il sole sorgeva rigenerato. Sui lati del sarcofago erano raffigurati gli “udjat”, due occhi che consentivano al defunto di guardare verso l’esterno, per mantenere il contatto con il mondo reale. Il sarcofago era identificato come la madre della rinascita, rappresentata dalla dea Nut, come affermato nella formula 44 dei “Testi dei sarcofagi”, recitata dal sacerdote durante il rito funebre: “ti ho racchiuso tra le braccia di tua madre Nut”.

Grazie al culto dei morti, l’antica civiltà egizia ci ha lasciato in eredità non solo meravigliose architetture e tesori inestimabili, ma anche una visione della dipartita che ci fa riflettere sulla possibilità di una vita immortale, a condizione di considerare l’esistenza di dimensioni non tangibili, sia storiche che culturali.

C’è qualcuno che non conosce Tutankhamon?

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